L’inferno sono gli altri, scrisse nel 1943 Jean Paul Sartre, probabilmente a Ferragosto sulle scale per i garage di un traghetto per la Sardegna. Sottoscrivono i musicisti: per chi è cresciuto con uno strumento in mano, gli altri sono una massa blaterante e indistinta, tenuta insieme principalmente da gusti musicali pessimi. E di certo non si limita ai soli musici l’idea che la buona musica sia in pericolo: da che ho memoria, la sua storia pare coincidere con la cronaca del suo declino – almeno a detta di chi questa storia ha voluto raccontarla. Un declino narrato ora dai classicisti sopraffatti dalla musica leggera, ora dai sessantottini spazzati via dal synth pop degli yuppies, fino ai grungettari novantiani sotterrati dall’elettronica e dalle pastiglie, e agli elettronici eclissati dalla trap e dagli sciroppi. Viene da chiedersi se questa diagnosi comune a tante generazioni di appassionati non abbia qualcosa a che fare, banalmente, col tempo che su quegli stessi appassionati agisce impietoso, disegnando rughe e estirpando capelli, finché un giorno la realtà non ci appare così amara e degradata da crederla vittima di un’involuzione cosmica irreversibile.

E’ una chiave di lettura che spiega molte cose e molte nostalgie, ma ancora non ci dice come mai accendere la radio in Italia sia un’esperienza musicalmente così sgradevole. Il vasto mare della rete in cui scrivo queste parole è zeppo dei lamenti dei musicofili, che galleggiano come bottiglie di plastica sotto ai cast dei festival, ai video di youtube, agli editoriali e ai memoriali. Un villaggio di Asterix dalle dimensioni non chiare, custode del gusto e circondato da musica di merda: oggettivamente di merda, puntualizzano molti degli abitanti, suggerendo implicitamente l’idea che esista una musica senza soggetti – aria che vibra con nulla o massima eleganza anche in assenza di ascoltatori. Proprio “Musica di Merda” era il titolo italiano di un libro di Carl Wilson che vale la pena recuperare, un brillante saggio in cui l’autore si poneva un semplice obiettivo: dimostrare rigorosamente che l’artista che più odiava facesse cattiva musica. La sua scelta cadde su Celine Dion, per lui simbolo di tutto ciò che di brutto e financo dannoso vi fosse nel pop. Certo, una cosa è dirlo, un’altra è dimostrarlo. Siete sicuri di saper riconoscere la brutta musica quando vi arriva alle orecchie, ma quali dovrebbero essere i criteri che la qualificano tale? La semplicità della partitura? L’assenza di modulazioni e accordi a molte voci? O al contrario l’eccessiva complessità? I suoni inauditi o i suoni già sentiti mille volte? Qualsiasi criterio scegliate, finirete per buttare a mare artisti che amate insieme ad artisti che odiate, e per le stesse ragioni – finché non ne sceglierete uno che farà buttare a mare pure voi. Io certo non ho la risposta, ma un aneddoto in cui forse si annida un granello di verità, sì. Nella città sacra di Hampi, in India, entrai nella piccola bottega di un ragazzo che passava la sua vita a disegnare episodi della vita di Krishna. Un’artista insomma, interessato a un unico soggetto – proprio come noi per secoli non abbiamo disegnato altro che vicende di Cristo e soci. Con una differenza: il ragazzo ovviamente sapeva di poter disegnare qualunque altra cosa, e mi mostrò fiero una cartelletta di opere d’ogni sorta, donategli da illustratori passati di lì negli anni. Teschi, navicelle, paesaggi, corpi nudi, grattacieli: tutto quello che ci piace disegnare dalle nostre parti. Guarda che bellezza questo, mi diceva. Questo però non lo faceva deviare di un millimetro dalla missione che si era scelto, e la stanzetta in cui lavorava era tutta ricoperta dei suoi splendidi tentativi, sempre più raffinati e complessi, dedicati esclusivamente a Krishna. Quando gli chiesi quanto costasse uno dei suoi pezzi, mi disse semplicemente “dipende quanti giorni ci ho messo a farlo”. Di ognuno di quei fogli appesi ricordava con precisione il monte ore che era stato necessario a portarlo a termine, mostrandomi tutti i dettagli che allungavano inevitabilmente i tempi di lavorazione – le mille foglie di un albero, i ricami di un vestito, i riflessi di un torrente. Me lo disse come fosse la cosa più ovvia del mondo, e così sul momento parve anche a me. Me ne andai con quello che vedete qui sopra (che costava 5 giorni), e pensai che in effetti potrebbe non essere così importante la scelta del soggetto a cui dedicarsi – vite di santi, vite di gnomi, lunghi blues, composizioni modali, riff trash metal, beat jungle, canzoni per bambini o sinfonie. Ma più giornate dedicheremo a questa passione, a perfezionarla e a dettagliarla, più la gente si fermerà a guardare e ascoltare. E non ci sarà nulla di male a far pagare di più ciò che ci ha richiesto più tempo e amore.

di Federico Dragogna de I Ministri

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