La storia ci dice che ogni scena o movimento culturale che si rispetti sia indiscutibilmente legato a dei luoghi. Studi, sale prova, club hanno sempre dato i natali alla maggior parte dei movimenti di cui sono stato fan.

Il Folkstudio, il Piper i Murazzi per differenti stagioni della musica Italiana, l’Haçienda a Manchester per l’acid house e la “second summer of love”, il CBGB a New York per il punk americano, il Berghain a Berlino per la sub-cultura techno dei primi duemila e tantissimi altri che ora non mi vengono in mente e che mi sentirei sconfitto a cercare online.

Ma se ripenso alla mia piccolissima storia musicale, a quella dei miei amici e quindi in qualche modo anche a quella della mia città, c’è un luogo che più di qualsiasi altro è stato un instancabile motore di eventi: il bar.

Lo ammetto, da che ho iniziato a frequentarlo sono sempre stato ossessionato e quasi scientificamente attratto dall’ostinato scontrarsi di esperienze umane che si consuma (consumava?) al suo interno; e sarà anche che ogni volta che mi viene il dubbio di non vivere abbastanza intensamente i miei anni – cioè più o meno tutti i giorni verso le diciotto e trenta- sono solito entrarci. Però mi è capitato davvero spesso di ripensare a quanto il percorso musicale mio e dei miei colleghi (leggi migliori amici) sia legato a doppio filo ad esso, e che più in generale una buona parte delle decisioni importanti e determinanti le abbiamo prese proprio lì, seduti ad una sedia con attorno qualche persona a cui volevamo bene. Quante volte senza accorgercene, tra gli sguardi mai davvero ricambiati alla ragazza del tavolo in fondo, e il via vai di un cameriere troppo occupato per accogliere le nostre richieste, ci siamo cambiati la vita.

Quella volta che ho chiesto al mio amico J. se voleva fare un pezzo di tour come bassista nel progetto con cui da poco avevo iniziato a suonare (poi diventato un paio d’anni di concerti e di serate indimenticabili su e giù per l’Italia, nonchè tassello fondamentale per ciò che è successo dopo). Quella volta che il mio amico J. un po’ per gioco mi ha chiesto se mi andava di provare a produrre il disco che aveva in testa (sì, di solito al bar ci andiamo insieme) dando inconsapevolmente il la a tanti altri dischi e progetti nei due anni successivi. Tutte le persone che hanno a che fare con la “nostra” storia musicale se non le ho incontrate, ho sicuramente iniziato a voler loro bene lì. A pensarci meglio probabilmente pure lo spazio che ospita queste righe non esisterebbe se non fosse per quel bar, e per tutti gli interminabili confronti su cosa voglia dire far musica di cui è stato teatro.

Certo, poi c’è lo studio, la sala prove, i concerti che ti cambiano la vita, quelli che non te la cambiano ma ti fanno divertire forte, quelli in cui sei tu sopra al palco, i tour, i festival, i backstage e un’infinità di altre situazioni molto più blasonate nell’immaginario del musicista.

Però poi gli incontri determinanti, le prese di coscienza, le idee azzeccate, i confronti e le epifanie hanno tutte avuto come sfondo un’insegna neon luminosa e dei bicchieri; e se per fortuna da un paio d’anni sono successe un sacco di cose belle è anche merito del bar: sarà che siamo cresciuti in provincia, sarà che quella provincia si trova proprio in Veneto.

Questa riflessione, fatta tante volte per ingannare il tempo sulla via per un aperitivo, assume un peso specifico ancora più importante nella sfortunata stagione che stiamo attraversando e che – a costo di suonare un po’ retorico- probabilmente ci insegnerà tanto sui luoghi di incontro, o meglio sulla loro assenza.

Ma anche se viene un po’ difficile, mi fa bene immaginare che in questo momento, da qualche parte dentro ad un bar chissà dove – a svariati centimetri di distanza e con le mani un po’ scalfite dal gel igienizzante – dei ragazzi imbevuti di birre e incoscienza si stanno reciprocamente cambiando la vita.

NdR: pezzo scritto prima del nuovo dpcm

Francesco Gambarotto

Sottoterra